Scoperto un meccanismo della tolleranza da morfina
ROBERTO COLONNA
NOTE
E NOTIZIE - Anno XV – 12 maggio 2018.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di
studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La morfina, alcaloide fenantrenico derivato dall’oppio, rimane
l’analgesico di riferimento sia per gli studi sperimentali sia per le
valutazioni delle proprietà dei nuovi farmaci introdotti in clinica nella
terapia del dolore. Rapidamente assorbita dalle mucose, l’effetto di una dose
orale – come accade anche per molti suoi derivati – è inferiore a quello di una
dose parenterale, ma la sua durata d’azione risulta spesso più prolungata per
via orale. La somministrazione endovenosa della morfina e dei suoi congeneri
determina un’azione pronta e, alle concentrazioni plasmatiche terapeutiche,
solo il 30% dell’alcaloide è legato alle proteine; la quota libera si concentra
rapidamente nei parenchimi e solo piccole quantità attraversano la barriera
emato-encefalica. Già 24 ore dopo la somministrazione, la concentrazione nei
tessuti si riduce drasticamente. La coniugazione con acido glicuronico
costituisce la principale modalità per la degradazione metabolica della
molecola, che viene eliminata per via urinaria in massima parte coniugata: il
90% dell’escrezione totale avviene dopo il primo giorno.
L’uso protratto di morfina, così
come quello tossicomanico, può portare a tolleranza
e a superattivazione AC. Si ricorda che per tolleranza
si intende un fenomeno fisiologico che impone il progressivo aumento nel tempo
della dose di una molecola (farmaco) perché si possa continuare ad ottenere
l’effetto iniziale.
Un nuovo studio identifica un
meccanismo molecolare mediante il quale la segnalazione V1bR promuove questo
processo, fornendo un potenziale approccio per rinforzare l’analgesia da
oppioidi senza accrescere la tolleranza.
(Taka-aki
Koshimizu, et
al. Complex formation between the vasopressin 1b receptor,
β-arrestin-2, and the μ-opioid receptor underlies morphine tolerance.
Nature Neuroscience - Epub ahead of
print - doi: 10.1038/s41593-018-0144-y, 2018).
La provenienza degli autori
è la seguente: Department of Physiology and Pharmacology, Faculty of
Pharmaceutical Sciences, Fukuoka University, Fukuoka (Giappone); Department of
Biological Chemistry, Department of Genomic Drug Discovery Science, Graduate
School of Pharmaceutical Sciences, K-CONNEX, Kyoto University, Kyoto
(Giappone); Institute for Integrated Medical Sciences, Tokyo Women’s Medical
University, Tokyo (Giappone); Department of Pharmacology, National Research
Institute for Child Health and Development, Tokyo (Giappone); Department Pharmacology
and Toxicology, Graduate School of Pharmaceutical Sciences, Kyushu University,
Fukuoka (Giappone); Division of Functional Genomics, Faculty of Pharmaceutical
Sciences, Himeji Dokkyo University, Hyogo (Giappone); Department of
Pharmacology, Division of Clinical Pharmacology, Jichi Medical University,
Shimotsuke, Tochigi (Giappone).
Prima di esporre in sintesi i
contenuti di questo interessante studio giapponese, si propone un paragrafo
introduttivo di un nostro saggio ormai classico:
“Analgesici Oppiacei: cenni storici, origine e chimica. Il papavero da cui si ricava l’oppio, Papaver somniferum, è originario dell’Asia Minore. Gli effetti euforizzanti di alcune parti della pianta erano noti fin dalla civiltà sumerica (4000 a.C.). Esistono descrizioni dettagliate del suo impiego nella civiltà egiziana, greca e romana. Teofrast Bombast von Hohenheim (1493-1541), più noto con il nome italianizzato di Paracelso, che egli stesso si diede, conosceva bene l’oppio, con il quale preparò, per primo, una tintura terapeutica contenente alcool, zafferano e zuccheri, conosciuta con il nome di laudano. La preparazione originale fu successivamente semplificata ed il suo impiego si diffuse grazie al medico neurologo Sydenham.
L’isolamento della morfina dall’oppio si deve ad un apprendista farmacista prussiano di nome Frederich Sertüner (1783-1841) che, mediante dosaggio biologico nel cane, ne stabilì le proprietà sedative e sonnifere alle dosi da lui testate. Proprio per l’efficacia ipnotica, il giovane aveva imposto alla sostanza il nome morfina, da Morfeo, il dio del sonno. Le sue prime comunicazioni redatte nel 1803, quando aveva vent’anni, furono respinte dagli editori o ignorate se pubblicate. Per provare la propria scoperta Sertüner decise di sperimentare su se stesso e su tre volontari, suoi amici, la preparazione purificata. La somministrazione di tre dosi di 30 mg in 45 minuti causò vomito, vasodilatazione cutanea ed una sindrome cerebrale che oggi definiremmo coma di primo grado. Il lavoro fu pubblicato soltanto nel 1817, e si sa che attrasse l’attenzione dell’eminente chimico francese Gay-Lussac, influenzando Pelletier e Caventou. In quello stesso periodo furono isolati numerosi altri principi attivi di origine vegetale.
La proprietà dell’oppio di dare farmacodipendenza ha lasciato nella storia dei popoli tracce indelebili della sua pericolosità che, se conosciute ed opportunamente valutate, avrebbero potuto ridurre, se non evitare, le conseguenze negative dell’estesa diffusione del traffico e del consumo di sostanze d’abuso nel mondo contemporaneo. Dal 1700, intorno alla metà del secolo, Inglesi, Olandesi e Portoghesi stabilirono un fiorentissimo traffico di oppio con la Cina dove si era enormemente diffuso il fenomeno dell’abuso, mentre l’impiego dei derivati del papavero come medicamento aveva trovato ostacoli nei medici, formati su antiche tradizioni e superstizioni, e al più disposti a consigliarne l’uso in una sola, discutibile, indicazione: la dissenteria. La tossicodipendenza da oppio divenne così drammatica in Cina alla fine dell’800, da minare il tessuto sociale del paese per la perdita delle energie produttive legate alle risorse umane. Il governo cinese, per arginare la disgregazione della società, promulgò leggi molto severe che proibivano l’importazione dell’oppio e ne penalizzavano il consumo. Tali leggi scatenarono una guerra durata tre anni e terminata con il Trattato di Nankino (1842) che diede all’Inghilterra Hong Kong, aprì cinque porti ai trafficanti inglesi ed autorizzò il commercio dell’oppio.
I gravi danni della tossicodipendenza per la salute dei singoli e le conseguenze sociali legate alla rapida ed estesa diffusione dell’abuso, furono probabilmente sottovalutati in Occidente, presumendo una relativa immunità da parte di popoli più saldamente vincolati a valori di responsabilità familiare e sociale, tutelati dalle istituzioni statuali e religiose. Invece accadde che l’oppio e la morfina, sempre più spesso prescritti ed impiegati, andarono diffondendosi anche in Europa e in America come sostanze di abuso presso i gruppi sociali più agiati. L’abuso, che avveniva mediante assunzione orale, negli Stati Uniti aveva raggiunto proporzioni rilevanti quando, nel 1920, una nuova legislazione in materia ridusse efficacemente e drasticamente il fenomeno.
Nei decenni successivi, con la gestione del traffico da parte di organizzazioni criminali internazionali, con la coltivazione del Papaver somniferum come risorsa economica fondamentale per alcuni Stati nazionali[1], con l’intreccio del commercio di droghe con altre attività illecite come il traffico di armi, con la preparazione della diacetil-morfina (eroina) come sostanza iniettabile, il profilo del fenomeno è cambiato radicalmente fino ad assumere la connotazione e le caratteristiche ben note della realtà attuale.
Gli analgesici naturali presenti nell’oppio, ossia la codeina, la morfina e la tebaina, appartengono agli alcaloidi a struttura fenantrenica e si ricavano dal lattice del Papaver somniferum. Alcuni giorni dopo la caduta dei petali, si incide superficialmente la capsula ancora immatura e succulenta. A distanza di circa un giorno, un lattice gommoso si addensa lungo le incisioni in quantità sufficiente per poter essere raschiato, raccolto in pani e lavorato. A questo materiale, che può contenere fino al 25% di alcaloidi, si dà convenzionalmente il nome di oppio[2]. Gli altri costituenti sono proteine strutturali, proteine enzimatiche (ossidasi, proteasi), mucillagine, gomma, cere, resina (2-10%) ed acqua (9-25%). Gli alcaloidi, che costituiscono i principi attivi, si trovano in massima parte legati ad acidi organici, soprattutto all’acido meconico, ma anche -in piccola quantità- ad acido solforico, lattico, acetico, succinico, citrico e malico. Il suo contenuto di morfina varia, in genere, dal 9 al 14 %, ed è portato al 10% nelle preparazioni standardizzate (la Farmacopea Ufficiale prescrive un oppio contenente il 10% di morfina quando sia essiccato a 60° C).
L’estratto totale di oppio prende il nome di papavereto e contiene numerose molecole attive, fra cui papaverina, narcotina, codeina e ben il 50% di morfina.
Gli alcaloidi presenti nell’oppio sono divisi in due classi chimiche:
1. derivati benzil-isochinolinici
2. derivati fenantrenici.
1. Gli alcaloidi benzilisochinolinici non sono analgesici, né presentano attività psicotrope definite. Le due molecole più importanti sono la papaverina e la noscapina[3]. La papaverina è un farmaco inibente la muscolatura liscia -per cui si adopera come miolitico- ed agisce come vasodilatatore. La noscapina, invece, viene impiegata come antitussigeno.
2. Gli alcaloidi fenantrenici (morfina, codeina, tebaina[4]) sono per lo più dei potenti analgesici. Il principale problema per l’uso farmacologico di queste molecole è dato dal fatto che il potenziale analgesico è, generalmente, direttamente proporzionale a quello tossicomanigeno. Infatti, la morfina che è il più potente analgesico ha anche le maggiori proprietà farmacomanigene e la codeina, che è il più debole analgesico, non desta preoccupazione per la genesi di condotte di abuso”[5].
Tanto premesso, torniamo allo
studio qui recensito.
L’esposizione cronica alla
morfina regola verso l’alto la segnalazione dell’adenilato ciclasi e riduce
l’efficacia analgesica, una condizione nota come tolleranza oppioide. I neurotrasmettitori non-oppioidi possono
rinforzare la tolleranza alla morfina, ma il meccanismo di questo processo è
ancora scarsamente compreso. Taka-aki Koshimizu e colleghi hanno rilevato e dimostrato che la
tolleranza alla morfina era ritardata nei topi privi dei recettori 1b (V1bRs) o
dopo somministrazione di antagonisti di
V1bR nel midollo ventromediale rostrale,
dove sono co-localizzati i trascritti per i recettori V1bR e μ. La
vasopressina aumentava l’affinità di legame della morfina nelle cellule
esprimenti sia V1bR che il recettore oppioide μ. La formazione di un
complesso costituito da V1bR, β-arrestina-2 e il recettore
oppioide μ determinava una upregulation,
mediata dalla vasopressina, della fosforilazione ERK e della sensibilizzazione
dell’adenilato ciclasi.
È poi emerso dallo studio un
dato biochimico particolarmente interessante: si è rivelato necessario un
segmento ricco di leucina nell’estremità C-terminale di V1bR per l’associazione
con la β-arrestina-2. La delezione di
questo segmento polipeptidico ricco di leucina del recettore V1b aumentava l’effetto analgesico della morfina e riduceva la sensibilizzazione
dell’adenilato ciclasi mediata da vasopressina.
Questi risultati indicano che
l’inibizione del recettore V1b, associato al recettore oppioide μ, fornisce
un potenziale approccio farmacoterapeutico in grado di accrescere gli effetti
analgesici della morfina senza aumentare la tolleranza.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E
NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] I principali produttori mondiali di oppio sono nell’ordine: 1) Afghanistan, 2) Myanmar, 3) Laos, 4) Vietnam (dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite). Un grosso sostegno all’economia del traffico è dato dal business del riciclaggio, basti pensare che a Gibilterra vi sono 20.000 abitanti e 70.000 società finanziarie.
[2] Termine con il quale in varie culture si indica talvolta la pianta, talaltra il fiore, altre volte gli estratti o le preparazioni, altre volte ancora, la parola è divenuta sinonimo di “droga psicotropa” o dei suoi effetti.
[3] Sono presenti anche narcotina, narceina e, in tracce, idrocotarnina, xantalina, laudanosina, ecc., considerati di scarso interesse medico.
[4] Sono presenti, in tracce, anche la neopina, la porfiroxina e la pseudomorfina.
[5] Farmaci e meccanismi nella terapia del dolore, nella sezione IN CORSO; questo nostro articolo è citato anche in Ettore Novellino, Farmaci oppioidi e cannabis nella terapia del dolore. Federico II University Press 2018.